Frutta Martorana

La festa dei morti, in Sicilia era per i bambini come aspettare la befana; i morti infatti portavano, la notte tra l’1 e il 2, giocattoli e dolciumi. Era una vera e propria strenna anticipata, che metteva in contatto gioioso i morti con i componenti più piccoli della comunità, che in questo modo si abituavano a pensare i defunti come spiriti benefici che in quella notte particolare uscivano dai sepolcri e si muovevano a schiere verso i paesi portando dolci e giocattoli. In questo modo si allontanava la paura della morte dai bambini, esorcizzandola attraverso l’atmosfera della festa e i doni.

La tradizione palermitana prevede inoltre che ogni famiglia prepari “u cannistru” ovvero un cesto con i dolci tipici della festa dei morti e frutta secca (di solito comprati alle bancarelle della fiera dei morti) che viene messo a tavola dopo il pranzo del giorno dei morti. L’elemento centrale del cesto è “u pupu ri zuccaru” un pupazzo di zucchero che rappresenta tradizionalmente i paladini di Francia o una ballerina, di altezza variabile tra i 20 e i 50 cm e dipinto con colori accesi e svariati decori.

Altro elemento importante del cesto è la frutta martorana, dolcetti di pasta di mandorle chiamati pomposamente “pasta reale” per la ricchezza dell’impasto. Oltre che buoni sono bellissimi da vedere modellati come sono in perfette imitazioni di frutta di ogni genere.

 Una delle tante leggende sull’origine della frutta martorana racconta che è stata realizzata dalle Monache del convento di Santa Maria dell’Ammiraglio, a Palermo, un convento realizzato per le nobildonne dell’ordine di San Benedetto e voluto dalla nobildonna Elisa Martorana (da cui presero il nome).

Si narra che all’interno del monastero le suore avessero creato uno dei giardini più belli della città e un’orto con buonissimi ortaggi. Il Vescovo, incuriosito, decise di andarlo a visitare approfittando del suo status. La visita, però, fu in pieno inverno, quando gli alberi erano spogli e l’orto non dava molti ortaggi. Le monache allora decisero di cerare dei frutti colorati con la pasta di mandorla per addobbare gli alberi spogli, e creare degli ortaggi per abbellire l’orto. In questo modo è nata la frutta martorana con coloratissimi mandarini, arance, melograni, limoni, zucche, carciofi ecc.

Le monache, visto il successo avuto, iniziarono a preparare la frutta martorana per le famiglie abbienti della città.

Seguono poi i tutù o tetù, biscotti con due diverse glassature, bianca o al cacao, i mustazzola che rappresentano gli ossi dei morti, e i taralli, ciambelle di biscotto coperte di glassa di zucchero. Molte di queste ricette si basano sulla pasta al garofano, un impasto di  farina, acqua, zucchero e  chiodi di garofano.

 Fino al 1968, anno del terremoto che distrusse la maggior parte delle case con il forno a legna dei paesi della Valle del Belice, a Salemi era tradizione in occasione della commemorazione dei defunti del 2 novembre confezionare e distribuire ai poveri che affollavano la piazza antistante il cimitero, pani a forma di braccia incrociate chiamati “manuzzi” o “pani di morti” al fine di rallegrare le anime dei defunti.

Il salato in Sicilia ha la sua apoteosi, durante questi festeggiamenti, con il ragout di carne e maiale, e zuppe a base di legumi, tra cui spiccano le fave e i ceci.

La simbologia di alimenti come la fava, la melagrana, il grano, le noci, la nespola o il vino, tutti così fortemente legati al culto dei morti, mi porterebbe a scrivere ancora molto. Mi fermo quindi con una riflessione; la festa dei morti, in ogni cultura, ha spesso carattere gioioso, tranne che nell’occidente cristiano, dove è all’insegna della mestizia e del rimpianto (rare le eccezioni).  Nel 1987 il comune di Torino invitò i cittadini ad adornare le tombe con fiori, messi a disposizione gratuitamente dell’amministrazione, e mandò la banda dei vigili urbani nei cimiteri, invadendo così di musica e colori luoghi troppo spesso considerati lugubri. L’intento era di far rivedere in essi il legame con le nostre radici, luoghi che contengono chi ci ha preceduto e ci ha trasmesso le tradizioni, i valori e la cultura su cui si basa la nostra comunità. Non sarebbe il caso di sperimentare nuovamente l’iniziativa torinese, invece di imprecare contro Halloween?

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